
Mentre sto finendo di lavorare al libro sul viaggio a piedi in Calabria, continuo ad interrogarmi sull’intreccio tra tempo, spazio e tra luoghi e storie, tra camminare a raccontare. Il numero di gennaio 2012 della rivista statunitense The Believer, contiene una lunga e densa intervista al “cartografo radicale” Denis Wood. Wood ha insegnato design alla North Carolina State University. Il suo libro più famoso è uscito nel 1992 e si intitola esplicitamente “The power of maps”, mentre il suo ultimo lavoro è “Everything signs: Maps for a Narrative Atlas”. Anche la sua ultima opera, come quasi tutti i suoi lavori da quarant’anni a questa parte, si occupa di dimostrare che le mappe non sono uno strumento “neutrale”: dietro questo strumento topografico si nascondono strutture di potere e meccanismi governamentali.

Gerhard Mercator – padre della cartografia moderna – coltivava l’utopia di costruire un apparato grafico onnicomprensivo. Un lavoro sconfinato, che non riuscì a completare per tre motivi. Il primo, banalmente, è che morì quando era ancora in corso. Il secondo consiste nel fatto che quelle mappe avevano dei committenti e dei finanziatori ben precisi: servivano per scopi commerciali e non puramente conoscitivi. Tuttavia, precisa Wood spiegando il terzo motivo, probabilmente se Mercator fosse vissuto in eterno non avrebbe mai finito il suo lavoro. Perché la pratica del costruire mappe è infinita.
In “Everything signs”, Wood raccoglie alcune rappresentazioni visuali del territorio in cui ha cresciuto i suoi bambini (il quartiere di Boylan Heights, in North Carolina): ci sono mappe costruite in base alla distribuzione dei giornali locali, alla ramificazione dei lampioni, all’esposizione delle zucche di Halloween. C’è anche una mappa costruita in base al colore delle foglie in una giornata d’autunno. Molte di queste mappe sono state costruire grazie al contributo di alcuni suoi ex studenti, cioè con gente che si occupa soprattutto di design. La precisazione è importante, dice Wood, perché chi costruisce mappe in genere vuole esprimere il mondo, mentre chi fa design usualmente si occupa di esprimere se stesso. Dunque è già interessante che un designer si metta a fare delle cartine. Inoltre, Wood ci tiene a chiarire che il problema di Mercator si ripropone anche per un campo di studio relativamente piccolo come questo, visto che il lavoro di cartografia sarebbe impossibile da considerare concluso anche per questa piccola porzione di territorio. Dunque, la mappa è un processo continuo e aperto e non la cristallizzazione del sapere e l’istituzione di gerarchie.

Quelli di Believer sono interessati a Wood perché questi temi hanno molte implicazioni letterarie che investono la discussione sul neo-post-realismo che la rivista si occupa di indagare. Per questo, l’intervistatore domanda a Wood: non trova che sia completamente falso il luogo comune secondo il quale “un’immagine vale quanto mille parole”, quando “il valore della parola è che essa rappresenta qualcosa di non raffigurabile, che ti entra in testa in maniera diversa da una figura”? Tuttavia, prosegue l’intervistatore, “la mappa si situa a metà tra l’immagine e la parola”. Wood risponde definendo questa intersezione e dicendo che “la mappa è un ragionamento” (“map is an argument”). Già dagli anni Sessanta, ad esempio, il geografo William Bunge tentò di costruire una geografia che tenesse conto anche delle distanze, dei movimenti, dei flussi e quindi della mobilità degli esseri umani nello spazio.
Per spiegare la relazione tra parola, immagine e spazio e mappa, Wood fa un esempio. Ci troviamo in una città che non abbiamo mai visto prima e lasciamo l’albergo. Abbiamo un paio d’ore di tempo libero, così cominciamo a vagare, senza sapere come si chiamano le strade che attraversiamo e cosa sono gli edifici che incontriamo. Più tardi, ceniamo con una persona che conosce quella città e gli raccontiamo di aver visto una costruzione molto interessante. Il commensale ci dice come si chiama, e comincia ad associare parole a quel fabbricato. Così, “una storia gli si sovrappone”. “Non ne avevi bisogno quando ti limitavi a camminare attorno al palazzo. Ma ne hai bisogno per qualsiasi altra cosa”, spiega Wood, perché “siamo gente di parole, pensiamo in parole, ed è così che conosciamo il mondo: attraverso parole” e dietro queste mappe c’è qualcosa perché “ogni ordine dà vita a una narrazione”. “Come geografo – dice Wood – mi concentro sull’idea materiale di una persona […]. Voglio vedere la persona arrampicarsi lungo questa specie di fibre di connettività lontano nell’universo, in modo da poter vedere davvero l’individuo come qualcosa che si riunisce momentaneamente da un sacco di cose che sono legate al mondo in molti modi complicati”.

Si arriva così ad un’altra applicazione pratica dell’assunto “map is an argument”, cioè al tema dell’ultimo libro di Denis Wood. Cosa fa di un quartiere un quartiere? Quali sono le caratteristiche del vicinato (“neighborhoodness”)? Nel 1972, Leonard W. Bowden ha scritto un articolo per la rivista The Professional Geographer intitolato “How To Define Neighborhood”. Con quel saggio, Bowden ha cercato di dimostrare come i confini del “quartiere”, la sua struttura e la sua identità, venissero creati dai ragazzi (maschi) pre-adolescenti di undici anni, che muovendosi attraverso lo spazio e connettendo i nuclei familiari, varcando gli steccati, entrando in case che i loro genitori non vorrebbero frequentassero e conoscendo gente che i loro vecchi non vorrebbero fargli incontrare, costruiscono il vicinato. Gli undicenni maschi, non le ragazze, perché a loro non era concessa la facoltà di vagare come ai maschi. E i pre-adolescenti, non quelli più grandi, perché questi ultimi erano rivolti verso i compagni di scuola più lontani. Secondo Wood, “il quartiere ha la funzione di trasformare l’essere umano inteso come cittadino in un individuo che ha un determinato tipo di frequentazioni e relazioni sociali con un determinato tipo di persone, che siede in un modo particolare in veranda quando il sole batte da quel lato. Allo stesso tempo, il quartiere prende quell’individuo e lo porge alla città, in una struttura sociale più vasta”.
Quando ti accorgi che le mappe, come i dizionari, le enciclopedie, non dicono la verità ma sono, come dice Wood, dei “ragionamenti”, scopri anche il modo in cui si riproduce la cultura dominante. Negli anni Cinquanta del Novecento William Bunge, da pioniere della cartografia radicale, dovette lottare per raccogliere i dati che gli servivano che le autorità non volevano concedergli, e poter disegnare ad esempio la mappa dell’orrore che ricostruisse i posti di Detroit nei quali i pendolari bianchi mentre tornavano nelle loro villette dal lavoro uccidevano i ragazzi neri. Fu in quest’occasione che disse: “L’attività di esplorare gli esseri umani in modo significativo è piena di pericoli fisici”.
e indovina un po’ dove si trova via gerardo mercatore a roma?
http://maps.google.it/maps?q=via+gerardo+mercatore+roma&um=1&ie=UTF-8&hq=&hnear=0x132f623d69f60033:0xdcc6162ac9cbc667,Via+Gerardo+Mercatore,+I-00176+Roma&gl=it&ei=ReUuT8-9FoWcOpOfqYQO&sa=X&oi=geocode_result&ct=title&resnum=1&ved=0CCMQ8gEwAA
Trovo che il tema della costruzione delle mappe sia interessantissimo, purtroppo molto spesso incomprensibilmente confinato in ambito specialistico. Non conoscevo Wood, ma mi sembra interessante l’approccio fornito e prendo spunto per una prossima lettura.
Se ti interessa il tema ti consiglio di leggere qualcosa di Kevin A. Lynch, un urbanista americano che secondo me offre alcuni spunti interessanti. Su wikipedia c’è una scheda molto molto sintetica http://it.wikipedia.org/wiki/Kevin_Andrew_Lynch
sto leggendo ‘l’o di roma’ di tommaso giartosio. è carino: giartosio, come accade in una favola di rodari, ha preso una mappa di roma e ci ha disegnato un cerchio con un compasso (l’ago su piazza venezia, la mina su casa sua) e poi lo ha percorso inventandosi modi a volte geniali per attraversare muri cortili appartamenti e strade senza mai abbandonare il cerchio né spezzarlo. anche giartosio parla del camminare come ‘azione che incide su un luogo’ e al tempo stesso lo segna; ma in fondo anche sul corpo del camminatore in movimento si riflette la struttura del territorio, perché – dice giartosio citando un certo richard long – chi cammina sente emozioni, trova ostacoli, pericoli, subisce i cambiamenti fisici del terreno… insomma le mappe non finiscono mai
Ciao un certo richard long è un quasi settantenne ( crdo) che camminado ridisegna il mondo da una quarantina d’anni ed è l’ispiratore di quel Piccio , citato a manetta e giustamente da Giartosio, a cui si deve ” Walkscapes. Camminare come pratica estetica ” edizioniEinaudi un libro assolutamente fondamentale per chi voglia perdersi in città. A me il libro sulla O di Roma mi sembra anche una riflessione sullo scrivere che, poi ,vuol dire tracciare parole per rinominare cose che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma che camminando immettiamo nel meraviglioso urbano. Le mappe però resistono a tutti questi tentativi di lettura; avendo letto Moby Dick so che le mappe devono mentire sempre, affinché i veri luoghi non vengano mai trovati. Per questo camminiamo.