Il Corriere della Calabria ha dedicato tre belle pagine a “Su due piedi”. Di seguito la recensione e le riflessioni firmate da Michele Giacomantonio.
Come un pellegrinaggio laico. Un viaggio dentro una terra con la quale c’è una reciproca appartenenza, ma che era necessario riscoprire, anzi guardare con la lentezza dovuta per capire se c’erano ancora le ragioni per amarla. Giuliano Santoro ha percorso la Calabria a piedi, un viaggio durato un mese dentro le curve, le salite, i drammi e i paradossi della nostra regione, da cui ha tratto un libro edito da Rubettino dal titolo “Su due piedi”. Macerie e frammenti, dentro cui indagare per comprendere il presente e capire quel che potrebbe arrivare. Frammenti da rimettere insieme per riscoprire un senso smarrito. E di macerie durante il viaggio l’autore ne ha trovate tante, in un tempo, come dice lo stesso Santoro, caratterizzato da macerie mediaticamente ben più celebri e mercificate, come i mattoni fatti a pezzi e venduti del Muro o i calcinacci del World Trade Center. Ma qui quelle che incontri per cominciare sono i muri muti di Cavallerizzo, il paese abbandonato perché inseguito da una frana e ricostruito altrove, esattamente come una sorta di prova generale di quanto sarebbe accaduto, in scala maggiore, all’Aquila del post terremoto. Qui come successivamente nella città colpita dal sisma, Santoro ha trovato e raccontato la schizofrenia delle persone che non possono più vivere nelle loro vecchie case e resistono alla necessità di trasferirsi nella nuova. Come la signora Carmelina, che lo guida dentro il contrasto tra la Cavallerizzo abbandonata e la new town, che però resta aliena, con la conseguenza straniante e dolorosa di avere due case e non abitare davvero in nessuna di esse.
Ecco, dalle pagine del libro esce prepotente un senso della Calabria in cui abitare significa ancora fare proprio lo spazio, riempirlo di senso, storie, odori. Emerge una regione sospesa indefinitivamente tra il suo essere arcaica e una proiezione quasi crudele dentro la post modernità selvaggia, fatta di palazzi non finiti, con le colonne tirate su e pareti senza intonaco, con le spiagge che se chiudi gli occhi potrebbero essere capaci di portarti indietro fino ai fasti dei lussi di Sibari, e fantasmi di fabbriche segni una industrializzazione di risulta che ha lasciato scorie visibili e non. E’ una storia antica, che si replica senza intervalli regolari, quella dell’abbandono dei luoghi da parte dei calabresi. Non si tratta solo dell’emigrazione, “verso le Americhe, l’Australia, fondando paesi doppi, mutuando usi e costumi”. Spesso più banalmente si è trattato di partenze per sfuggire a una condizione disperante: via dal mare che poteva portare nemici e dalla malaria per trovare rifugio sulle montagne che guardano la costa, come per i paesi del Tirreno cosentino. E poi il ritorno al mare e al saccheggio edilizio della spiagge, durante il mediocre boom economico, quando il sogno borghese era di farsi la villetta più prossima possibile alla spiaggia. Lo sguardo del narratore viaggiante svela che la storia di Cavallerizzo è solo più drammatica e rapida rispetto agli altri esodi cui queste comunità sono state costrette. E in nessun caso si è trattato di esodi liberatori, mai si è riusciti a “sfuggire al faraone”. Si è trattato di esodi senza redenzione. Inevitabilmente il territorio saccheggiato impone lo sguardo sui saccheggiatori.
Il viaggiatore affronta nelle sue pagine l’ombra perenne della criminalità organizzata che incombe sull’uso degli spazi e ne causa la violazione. Non è solo abusivismo edilizio, che oltraggia una bellezza che una volta levava il respiro. E’ anche usare il mare come pattumiera delle cose peggiori. Santoro camminando incontra gli spettri di navi affondate d’avanti alle villette delle vacanze e il fantasma di Giovanni Losardo, amministratore comunista che a quello scempio si era opposto e per questo fu ucciso. Un destino non eccezionale in una terra dove essere contro la ‘ndrangheta spesso voleva dire avere in tasca una tessera del Pci. Come appunto per Rocco Gatto, “il mugnaio comunista”, cui essere armato non servì visto che lupara fu più veloce.
Con incredibile tempismo, l’uccisione raccontata da Santoro avveniva pochi giorni dopo che i carabinieri a Bologna sparassero mortalmente a Francesco Lorusso. L’autore affianca i due fatti, lasciando al lettore il compito di cucire i lembi di due storie lontane e diverse e tuttavia entrambe segni delle molte facce che può avere il potere. Del resto sempre dentro lo stesso filone narrativo, trova spazio la parte del libro dedicata ad Africo nuovo, una delle prime new town quando però ancora non si chiamavano così.
E parlare di Africo vuol dire parlare di fratelli Palamara, che guidati dal fratello maggiore, Rocco, avevano occupato la piazza del paese e l’avevano rinominata “Piazza Rossa”, ballando in quel luogo una liberatoria tarantella. Un segno insopportabile per i padrini che infatti punirono Rocco. Un filo lega il mugnaio comunista ammazzato dalle ‘ndrine e lo studente di Lotta continua morto a Bologna, così come un filo cuce Africo della tarantella eretica al movimento del 77, perché Rocco Palamara ne fece parte attiva a Roma. Il viaggio di Santoro è fatto della fatica del cammino solitario, qualche volta consolato dalla presenza di un compagno di strada. Amici che lo hanno scortato attraverso sentieri dimenticati, guide per capire meglio storie e persone e per restare stupiti e magari in silenzio d’avanti all’incanto di certi luoghi. Non mancano dentro il racconto del viaggio fatto a piedi, pagine di tenera autoironia. Come quando a Giuliano, alle prese con i sentieri impervi e verticali del monte Pellegrino, viene in mente John Belushi del film “Chiamatemi Aquila”. Come l’attore americano, che nel film interpreta proprio la parte di un giornalista che viene mandato lontano dai guai della città fin su una montagna per intervistare una ornitologa, anche all’autore viene di dire ai più allenati compagni di scalata: “Lasciatemi qui”. Oppure come quando, alla fine di ogni giornata di cammino Giuliano postava sui social network il suo report e qualcuno dubitando che il viaggio non fosse reale ma virtuale, lo costrinse a mandare pure qualche sua foto di viandante. Ma ciò che si trova dentro la narrazione partorita nel corso di questa specie di pellegrinaggio disincantato, è la paradossale coniugazione tra la durezza del mercato selvaggio, che produce lo sfruttamento più spietato e l’arretratezza dei luoghi, dove pure vengono accumulate fortune illecite. Tra le incompiute e le bellezze violate. Tra una globalizzazione esigente e un fiero arcaismo. Sfumature che si colgono se si rinuncia alla fretta, camminando a piedi dentro i luoghi e le storie.
Giuliano Santoro è un giornalista calabrese che da questa terra è andato via e a cui torna per i vincoli d’affetto che lo legano a questi luoghi. Lavora per il settimanale Carta e per le pagine web di Micromega e per raccontare la Calabria ha utilizzato il viaggio come reportage, un genere letterario perfetto per chi intende riscoprire i luoghi e il loro senso. L’andare a piedi poi è stata una scelta che oseremmo definire politica. Infatti non è solo funzionale alla profondità dello sguardo che l’autore voleva trasferire nella sua narrazione. E’ anche, forse soprattutto, una forma antagonista all’urgenza che trasforma la partenza nell’arrivo, il luogo da cui ci stacca nella meta. E’ la lentezza del camminare che consente di impadronirsi degli odori, dei colori, delle parole delle genti incontrate, delle storie minute o grandi speso celate dall’oblio. Un modo insomma per dire che il viaggio è l’andare.
Tuttavia non si deve commettere l’errore di pensare che la fatica di Santoro, fisica e documentaristica, sia assimilabile alle visite dei non pochi viaggiatori dei secoli passati. Il suo è stato da subito, dall’inizio del viaggio, lo sguardo di chi sa, di chi si appresta non a conoscere, ma a riconoscere. Ne è uscito un racconto che resta volutamente sospeso tra l’inchiesta giornalistica, l’osservazione sociale, la descrizione antropologica. Non c’è cedimento all’indulgenza verso i guasti di questa terra, né esaltazione di forme di eroismo, che pure qui si sono manifestati. Il racconto di Santoro restituisce una Calabria offesa, resistente, sparata dentro una modernità che non riesce a comprendere, costellata di centri storici e centri commerciali. A ben guardare ci si può trovare, dentro le pagine del libro “Su due piedi”, certe atmosfere evocate da alcune poesie di Franco Costabile, che pure raccontano una Calabria che non c’è più da tempo. Così come pure dentro le righe che Santoro ci propone sembra poter ritrovare certi report di Paolo Rumiz, quando si fece accompagnare da queste parti da alcuni eruditi calabresi inseguendo il fantasma di Annibale e la fierezza dei Bretti. Ma Rumiz è un giornalista e scrittore triestino mentre Santoro è calabrese. Quest’ultimo sapeva cosa cercare, questa terra per Santoro non era una scoperta, pur restando forse ancora una sorpresa.
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