Il nuovo numero della rivista Letteraria parla di utopia. Nel mio contributo, ragiono attorno all’uso del linguaggio e dei temi utopici ad opera di due religioni/sette diverse tra loro: il Tempio del Popolo del reverendo Jim Jones (che convinse 909 persone a suicidarsi nel novembre del 1978 all’interno del recinto della comunità di Jonestown, in Guyana) e Scientology di Ron Hubbard (che al contrario ha saputo gestire il sincretismo tipico dei movimenti carismatici per integrarsi nel sistema). Tutto questo per dire che ogni volta che le utopie dei movimenti vengono sconfitte, le speranze rivoluzionarie tracimano in differente misura, e con intensità e livelli di fanatismo diversi in una qualche forma di setta. Ecco alcuni stralci del mio testo.
Siamo nel 1938. Ron Hubbard è un prolifico scrittore pulp. Ha la penna facile e pochi scrupoli. Comincia a collaborare con Astounding Science-Fiction, una rivista – probabilmente la rivista – dell’epoca d’oro della fantascienza. Su quelle pagine, dirette da John W. Campbell Jr., l’ancora ventisettenne futuro fondatore di Scientology si fa le ossa con mostri sacri del genere come Robert A. Heinlein e Isaac Asimov. Campbell assegna alla letteratura di fantascienza il «grandioso compito di esplorare mondi alternativi, porre domande sul significato delle cose e il destino e inventare nuove realtà plausibili». A proposito di questa attitudine, il critico Viktor Sklowskij osserva che il genere si distingue per «spirito di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di realizzazione, tramite appunto la scienza, che non è distante dall’ispirazione utopica» (il suo saggio è contenuto nel seminale Nei Labirinti della Fantascienza, a cura di Antonio Caronia, Feltrinelli 1979). Dal canto suo, Hubbard era stato influenzato da Alfred Korzybski, il filosofo polacco naturalizzato statunitense ideatore della teoria della semantica generale. Per Korzybski, annota Lawrence Wright nella sua esaustiva inchiesta su Scientology intitolata in Italia La Prigione della Fede (Adelphi, 2015), «le parole non sono le cose che descrivono proprio come una mappa non è il territorio che rappresenta».Il linguaggio modella il pensiero. Il mix tra sci-fi, divulgazione psicoterapeutica, programmazione neurolinguistica, nascente cibernetica produce quello strano culto che prende il nome di Scientology.

Negli anni in cui Hubbard impara i rudimenti del linguaggio utopistico che impiegherà a fini manipolatori, nel periodo tra la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale, comincia a muovere i primi passi un altro personaggio destinato ad esplorare i territori perturbanti della utopia tra spiritualità, fanatismo e riscatto sociale. Si chiama Jim Jones. Quarant’anni più tardi, questo tizio convincerà i suoi adepti a trasferirsi nella Guyana inglese per fondare la cittadella utopica di Jonestwon. Nel novembre del 1978 Jones si toglierà la vita assieme a più di 900 fedeli, nel corso di un «suicidio rivoluzionario». Quando mancava un anno a questa Apocalisse, il reverendo Jones detta ad un registratore la sua autobiografia. «Ero considerato l’immondizia del quartiere, in quel periodo ti chiamavano white trash», esordisce Jones parlando della sua infanzia nell’Indiana, figlio di un disoccupato invalido e di un’operaia, cresciuto nell’America rurale sconvolta dalla Grande Depressione. Le risorse del New Deal hanno contribuito di poco alla condizione del proletariato del Midwest. I rifiuti bianchi hanno due vie di fuga: la religione (prosperano le chiese fondamentaliste) e l’esercito (l’ascensore sociale della divisa). Jones sceglie la prima strada. A 19 anni arriva ad Indianapolis con sua moglie Marceline. Si unisce ai metodisti, che fanno proseliti presso i neri dei ghetti urbani e delle aree rurali, prediligono le predicazioni enfatiche e non ingabbiano eccessivamente la libera iniziativa dei suoi pastori. A Jones quei sermoni ricordano le frequentazioni integraliste d’infanzia. Ecco le parole che detta al magnetofono per raccontare il suo incontro con la Chiesa: «Cammino per la strada, mi fermo ad un negozio di automobili usate. Incontro un uomo e scopro che è un Sovrintendente metodista e penso ‘Merda, è uno stronzo religioso’. Comincio a dare addosso alla chiesa, di brutto. Dice: ‘Perché non passi al mio ufficio?’. Io penso: ‘Stronzo non ci vengo al tuo ufficio’. Ma poi l’ho fatto, per qualche ragione istintiva l’ho fatto. Mi ha detto: ‘Voglio che tu prenda una chiesa’. Io dico: ‘Una chiesa a me? Io non credo a niente, sono un rivoluzionario’ […]. Ecco come la chiesa è entrata nella mia vita. La chiesa mi è caduta in grembo».
Così, Jones diventa vicario alla Sommerset Outside Church. Comincia a fare opera di proselitismo presso i neri. «È stata una battaglia terribile – dirà anni dopo – Pensavo: ‘Non riuscirò mai a fare una rivoluzione, non riesco neanche a convincere questi stronzi a integrarsi, figuriamoci se riuscirò a fargli accettare una filosofia comunista’». Indianapolis non è esattamente culla di progressisti, è un luogo e di dubbie tradizioni democratiche. È sede dell’Ufficio centrale del Ku Klux Klan e ospita un ghetto apatico e degradato. Jones negli anni Cinquanta si rivolge ad un corpo sociale rassegnato che non riuscirà ad infiammarsi neanche in occasione dei riots del decennio successivo. «Predicavo l’integrazione contro la guerra, ci buttavo dentro un po’ di filosofia comunista», racconterà poi. Quando i primi sottoproletari neri fanno il loro ingresso nella chiesa di Jones, questi scopre che sono parte della grande migrazione che a partire dagli anni della Prima guerra mondiale muove dal sud rurale e razzista muove milioni di afroamericani verso le città industriali del nord. Il melting pot non è ben visto. La piccola borghesia bianca chiede la rimozione del pastore Jones. Dal canto suo, quest’ultimo accusa i metodisti di «mancare d’amore» e compie il primo esodo della sua storia. Si porta dietro un gruppetto di fedelissimi e li trasferisce vicino al ghetto. Nasce la «Chiesa dell’Unità e della Comunità», modello di setta urbana tipica del dopoguerra statunitense. Il reverendo si batte per i diritti dei neri, prende posizione sui progetti di riqualificazione urbana, raccoglie simpatie presso i liberal. Organizza una chiesa che è anche una setta, che è parte della metropoli e al tempo stesso include forme di vita pre-industriali.

L’equilibrio è tutt’altro che garantito, ecco perché il reverendo abbandona la chiesa nel 1961, all’apice del proprio successo mondano, pochi mesi dopo la nomina a direttore della Human Rights Commission di Indianapolis. Sparisce per due anni, durante i quali va alla ricerca della Terra promessa. Sono i 24 mesi meno nitidi della sua vita controversa. Pare che vada a Cuba, allo scopo di reclutare qualche decina di fedeli capaci di innescare vero «spirito rivoluzionario» nella sua comunità. Passa per il Brasile (dove racconterà di aver aiutato gente «che stava in clandestinità e di aver «predicato apertamente il comunismo»). Passa per la prima volta dalla Guyana, dove invece accusa le altre chiese di «promuovere il comunismo». Jones si contraddice ad ogni versetto, inciampa sui suoi passi. Quando ritorna a Indianapolis da predicatore si trasforma in profeta. Intensifica l’attività carismatica, le «guarigioni miracolose», sfoggia capacità medianiche e telepatiche. Il salto di qualità non gli serve a risolvere il paradosso fondativo del suo culto, di cui si diceva prima. L’esterno prevale sull’interno, la società aperta sulla comunità chiusa, la Chiesa sulla setta, la realtà sull’utopia. Bisogna alzare la posta. Nel 1965 annuncia di aver avuto una visione: il 15 giugno 1967 gli Stati Uniti e il mondo verranno distrutti da una catastrofe nucleare. Secondo il più classico schema millenaristico, lo stesso che Reagan ripeterà come un canovaccio persino nei fulgidi anni Ottanta, il profeta afferma che solo «pochi eletti» si salveranno ed esorta i fedeli a raggiungere la Redwood Valley, tranquilla località di allevatori nella California del nord. Anche questa volta lo seguono in pochi. Soltanto 150 fedeli, lo zoccolo duro, scelgono di abbandonare tutto e seguirlo. Ma la setta ha ritrovato la sua purezza, non ha più bisogno di trovare al di fuori di essa il senso della propria missione. Le cerimonie durano diverse ore. Dapprima alcuni «miracolati» raccontano come Jones ha donato loro la guarigione. Poi il reverendo comincia a parlare. Attacca la Bibbia, si rivolge agli afroamericani («qualsiasi nero che creda ancora nella Bibbia è un traditore»), esalta le prostitute («le uniche persone cariche d’amore»), elogia le Pantere Nere. Dopo il fallout nucleare, dice Jones, il suo gruppo avrà il compito di «fondare una società veramente ideale, tutti si prenderanno cura gli uni per gli altri, i bisogni della gente verranno soddisfatti per amore e non perché si hanno soldi».

Il Peoples Temple viene visto dall’esterno come una comune, una delle tantissime che a cavallo tra i Sessanta e i Settanta si diffondono in tutti gli Stati Uniti. Soltanto in California,nel ’65 se ne contano 127. In quell’anno «emersero in gran numero leader carismatici potenziali, seguaci impazienti e autonomi cercatori di comunità», secondo la significativa descrizione di Benjamin Zablocki, autore nel 1980 di un saggio sul fenomeno significativamente intitolato Alienation and Charisma (Free Press, 1980). La crisi del movimento dei diritti civili, la nascita dei Weathermen e di altri gruppi radicali, la frammentazione dell’area di opinione vasta del Free Speech Movement e del pacifismo, produce la crescita delle comuni. In dieci anni in California le comuni si decuplicano: se ne contano 1176. Sono animate dalle più diverse ideologie e presentano le sfumature spirituali e politiche più differenti. In questo contesto, Jones passa quasi inosservato. Anzi, l’insediamento appare tranquillo e affidabile agli occhi dei benpensanti, i pochi abitanti del posto e ai benestanti vacanzieri che arrivano dalla Bay Area. Jones si inventa meticcio, afferma di avere sangue Cherokee e prova a inglobare una vicina comune socialista laica, viene cooptato nel Grand Jury della contea, ottiene per la sua setta (che dichiara una congregazione di 86 membri adulti) lo status di non-profit corporation. La comunità riprende a crescere, nonostante e grazie al caos normativo cui supplisce il carisma del suo profeta.
Dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in poi sappiamo che l’efficacia di ogni controrivoluzione è data dalla sua capacità di sussumere, inglobare, pervertire le istanze prodotte dalla rivoluzione. Il linguaggio del fascismo prova costantemente a impadronirsi di parole provenienti da sinistra. La grammatica neoliberista, da Reagan a Zuckerberg, è intrisa di utopie libertarie e retoriche partecipative. La sconfitta di un ciclo di lotte, il suo momentaneo esaurimento, produce sempre lo sfondamento della reazione nel campo delle narrazioni rivoluzionarie. Il benessere del corpo, la centralità dei suoi desideri e della sua attività, produce negli anni Ottanta del Novecento la moda edonista del fitness. L’utopia dell’altrove rivive in forma perversa nei suburbi ballardiani. […]