Qualche anno fa, era il 2011, usciva per Gargoyle, L’Alba degli Zombie, che scrissi assieme a Selene Pascarella, Danilo Arona e Paolo Zelati (non accreditato in copertina ma a tutti gli effetti quarto autore del volume, che si fregia di una sua bellissima intervista al Maestro). Con quel libro, nel nostro piccolo, preconizzammo l’invasione zombie che si sarebbe verificata negli anni successivi, con libri, serie e film.
Quello che segue è un estratto del mio saggio, che ruota attorno alla filmografia zombie di Romero per individuarne alcuni nessi politici.
Questa storia comincia almeno nel diciassettesimo secolo. Siamo nel piccolo villaggio di Salem, nel New England. È il tramonto. Il giovane buonuomo Brown esce dalla sua casa. Bacia sua moglie Faith. Mentre il vento gioca con il nastro rosa che adorna il suo cappellino, la guarda da lontano e si addentra nell’oscurità della foresta. È preoccupato, perché «Potrebbe esserci un indiano feroce dietro ogni albero». E invece, addentrandosi nel viale alberato che conduce al bosco, incontra il diavolo. Scoprirà che tutti i personaggi che costellano la sua giornata nel mondo fatato del villaggio, a partire dalla paciosa vecchietta che è stata la sua catechista, sono frequentatori di quell’uomo col bastone a forma di serpente: dal sindaco al prete fino ad arrivare alla sua Faith. Il male è si nasconde ogni vaso di fiori, sul sagrato della chiesa, dietro le strette di mano volitive degli onesti lavoratori del paesello. Il racconto «Goodman Brown» di Nathaniel Hawthorne sintetizza in poche pagine l’ossessione narrativa dell’autore de «La lettera scarlatta»: la corruzione della società ad opera di un male che non è esterno alle nostre esistenze e a quelle dei nostri simili. Il mito fondativo dell’America, quello dei puritani che arrivano dal mondo vecchio e corrotto per edificare il mondo nuovo della purezza si sarebbe scontrato da subito con due forze: quella dei nativi americani, gli infedeli che popolavano la terra promessa, e quella degli europei, la potenza coloniale da cui i nuovi americani provenivano. Questa condizione ambivalente, quella di essere al tempo stesso colonizzatori e colonizzati, è l’ambiente in cui operano i personaggi di Hawthorne. Edgar Allan Poe lo disprezzava perché non sopportava le storie a sfondo morale, pur rimanendo affascinato dalla metodica solerzia con cui Hawthorne, che mentre scrive è solo un impiegato della dogana, si cimenta con la questione del male. Il buonuomo Brown, mentre assiste sbigottito alla messa nera, sente il cerimoniere declamare queste parole: «Grazie alla simpatia che il vostro cuore umano prova per il peccato, avrete sentore di tutti i luoghi – chiese, camere da letto, strade, campi e foreste – in cui è stato commesso un crimine, ed esulterete nel vedere che tutta la terra è una sola macchia colpevole, una grande chiazza di sangue».

Dalla presa d’atto che il male non è un’entità aliena, ma al contrario alberga tra noi, deriva la considerazione dell’unicità del mondo. Siamo condannati a vivere in questo mondo. Non si può sfuggire, non è possibile evadere né cercare la salvezza. Non esiste un fuori e ogni via di fuga è illusoria, o almeno soltanto temporanea. Questo approccio, per certi versi nichilista, è una premessa doverosa. Un presupposto necessario ad affrontare il discorso radicale, che va alla radice delle cose e dei discorsi, come quello del rapporto tra vita e morte. Cerchiamo di venirne a capo in queste pagine prendendo come universo di riferimento soprattutto la saga degli zombie di George A. Romero. Sono storie molto preziose perché contribuiscono a tracciare la cartografia di una condizione ontologica: quando i morti camminano sulla terra significa che non esiste nessuna trascendenza, neppure quella più estrema. Non esiste più un altrove. È la fine del mondo. È finito il mondo che abbiamo conosciuto. Questa è la prima spiegazione della dilagante e contagiosa proliferazione dell’immaginario zombie che ha preso il via nel 1968 con un piccolo film indipendente e che oggi ha stabilmente contaminato il cinema, la televisione, i videogiochi, la letteratura. Il farsi uno del mondo ci costringe a pensare al pianeta nella sua totalità e rende illusoria, temporanea quando non velleitaria, ogni scappatoia o costruzione di un luogo separato. Ciò ovviamente non significa che ci troviamo di fronte ad uno spazio liscio e indistinto. Al contrario, il mondo che ci ospita è segnato dalla proliferazione dei limiti: sono lì col solo scopo di essere violati. I confini vengono continuamente attraversati. Lo zombie relativizza ogni confine, rende malleabili persino i confini più sacri. Il passato che credevamo passato torna a minacciare il futuro nel presente. L’altrove per eccellenza decide di scendere in terra. L’America del buonuomo Brown è il Nuovo mondo della narrazione puritana che si scopre attraversato e contaminato dal caro, vecchio male. L’America è la colonia europea che si ribella al giogo delle monarchie continentali inaugurando il mito della frontiera e quello del liberalismo. Ma allo stesso tempo c’è il Male. L’America persegue la soluzione finale contro i nativi americani, attacca le catene alle caviglie degli schiavi provenienti dell’Africa e allunga le mani sulla parte meridionale del continente.
Non siamo di fronte a un giorno del giudizio, alla battaglia finale della vita contro la morte, del bene contro il male. Quella descritta nei film di Romero è piuttosto una condizione esistenziale, continua, permanente. Ciò è dimostrato, come vedremo, dalla insistenza «sulle sfumature dei confini di quelle che invece dovrebbero essere zone nettamente demarcate». Perché, come ha spiegato il regista statunitense nel corso di un incontro al Torino film festival del 2000, «l’orrore viene sempre da dentro». […]
Zombie e Potere. Ponendo l’uomo di fronte al crinale estremo che separa la vita dalla non-morte, Romero affronta uno dei dibattiti fondanti la politica moderna: cos’è la sovranità? A che serve il sovrano e chi lo legittima? La minaccia dietro l’angolo, della paura del prossimo e del ritorno a uno stato di natura post-apocalittico in cui tutte le istituzioni non esistano o non abbiano il potere di tenere sotto controllo la situazione ci portano direttamente ai paradigmi di Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau. I due pensatori, per la prima volta si preoccupano di fornire una spiegazione razionale e una legittimazione sostanziale alle forme di governo. Quella di sganciare il potere da qualsiasi aura divina, mettere i piedi per terra e affrontare la realtà è, pur con mille contraddizioni, la pretesa materialistica che si situa all’alba del pensiero politico moderno e che ha molto a che fare con i tentativi e gli errori di chi muove i primi passi nell’universo zombie.
Nel 1660, Hobbes usò la metafora mostruosa del Leviatano per dimostrare come gli individui tendano ad associarsi e fondare forme di autorità spinti dalla paura, poiché la vita nello «stato di natura» è «solitaria, povera, sporca, brutale e corta». In altri termini, gli individui si aggirano in cerca di sangue, come gli zombie di Romero. Ciò che avviene dentro la casa di Night of the Living Dead dimostra come una comunità possa costituirsi solo a causa del terrore. Molti dei personaggi che si incontrano nella casa assediata non si erano mai visti prima, eppure danno vita ad una sorta di apparato di governo in cui i due maschi antagonisti, l’afroamericano Ben e il bianco signor Cooper, si scontrano per decidere come affrontare il pericolo. Ben rappresenta la posizione comunitaria: lavora per salvare quanta più gente possibile. Cerca di mettere al sicuro anche la donna traumatizzata, Barbara, anche se sa bene che lei non potrà mai fare nulla per lui.
Ben è l’emblema del contratto sociale che prevede garanzie e protezione per tutti i membri della comunità. D’altra parte, il signor Cooper rappresenta l’individualista dell’«ognuno per sé»: riconosce senza problemi di aver sentito delle richieste d’aiuto dai piani superiori, ma di non aver mosso un dito per non correre rischi. Non ci potrebbe essere uomo più conforme alla descrizione delle tendenze della natura umana individuate da Hobbes nel Leviatano: «una di naturale bramosia, per la quale ognuno reclama per sé solo l’uso delle cose comuni; l’altra di ragione naturale, per la quale ognuno cerca di evitare la morte violenta come il maggior male della natura». Lo scontro tra l’individualista e il comunitarista condanna entrambi: Ben spara a Cooper quando quest’ultimo cerca di chiuderlo fuori casa. Cooper, ferito, cerca di accoltellare Ben ma viene aggredito da sua figlia, che nel frattempo è diventata uno zombie. Ben, invece, sarà ucciso da un gruppo di vigilantes, dopo aver passato la notte nello scantinato.
In Dawn of the Dead ci troviamo di fronte al passo successivo: se Night of the Living Dead rappresentava l’esito disastroso dell’isolamento individualista, adesso Romero mette in scena il ritorno allo stato di natura hobbesiano, quando il contratto sociale che conosciamo è gia collassato e la paura permette a chiunque di compiere qualsiasi crimine. Un prete rappresenta un barlume di lucidità disperata: non può uccidere gli zombie e quindi li rinchiude in uno scantinato. «Gli ho dato l’estrema unzione» dice a Peter, uno dei soldati. Poi lo avverte: «Sei più forte di noi, ma ho paura che presto saranno loro a essere più forti di voi. Quando i morti camminano, seňores, dobbiamo smettere di uccidere. O perderemo la guerra». I protagonisti si rifugiano dentro un centro commerciale. Nel moderno tempio del mercato si costituisce un patto che è un vero e proprio contratto sociale tra due lavoratori dei mass media, Stephen e Fran, e due soldati, Peter e Roger. Vige la regola che viene dalla pubblica autorità: bisogna distruggere gli zombie. Esattamente il contrario di quello che faceva il prete, legato più al pragmatismo che all’etica trascendentale (a che serve uccidere i morti?). Ma solo quando Roger verrà morso e contagiato, si accorgeranno che sarà più difficile per il gruppo rispettare le consegne e si renderanno conto dell’«umanità» degli zombie che fino ad ora avevano ignorato.
Day of the Dead è il film in cui siamo più portati a simpatizzare per gli zombie. Il dottor Logan addirittura, cerca di educarli affinché non uccidano il prossimo. Il libro che Logan dà al suo allievo-zombie preferito, Bub, è «Salem’s lot»: un omaggio a Stephen King, ma anche un riferimento al villaggio del male del buonuomo Brown di cui parlavamo all’inizio. Tutti gli individualisti, cioè i militari, alla fine vengono uccisi. Gli zombie si mostrano persino in grado di relazionarsi tra loro e sviluppare forme rudimentali di contratto sociale. Lo scontro tra uomini in camice e uomini in divisa approfondisce l’elemento del contagio, del virus zombie, e fornisce un ulteriore sviluppo alla linea di conflitto tra «individualisti» e «comunitaristi»: quella relativa alla contaminazione dei corpi. Il filosofo Roberto Esposito ha individuato nella categoria dell’immunità il perno di rotazione della società, dal punto di vista materiale e simbolico[1]. Nei film di Romero è il corpo, in fase di decomposizione e caduco, degli zombie a essere davvero protagonista. Nel caso di tutti gli altri non-morti (si pensi al vampiro, al fantasma o alla mummia), il corpo è impercettibile, trascendente o troppo perfetto per essere considerato davvero «umano». Lo zombie invece è il più vivo dei non-morti. Per Esposito, i ruolo cruciale del corpo è dovuto al fatto che esso è un campo di battaglia la cui cartografia si inscrive nella linea di tensione tra «immunità» e «comunità». «Il corpo è ciò che abbiamo di più comune – scrive Esposito – ma anche, proprio per questo, per il rischio che tale contiguità comporta, ciò che ci sforziamo di rendere più proprio e dunque di immunizzare nei confronti di tutto ciò che lo ‘tocca’. […] Quanto più gli uomini – ma anche le idee, i linguaggi, le tecniche – comunicano e s’intrecciano tra di loro, tanto più si genera, come contro spinta, un’esigenza di immunizzazione protettiva»[2]. Lo zombie è la rappresentazione del «processo di contaminazione» («l’universo, in quanto ambito di dispiegamento della vita, è un grande meccanismo di contaminazione generalizzata», precisa più avanti Esposito) e il tentativo di difesa immunitaria. La relazione «essere comune» dei corpi e «immunitas» è sempre esistita.
La saga di Romero copre il lasso di tempo in cui questo discorso diventa sempre più «politico» e traina il dibattito pubblico. La contaminazione dell’Aids ha segnato il riflusso e la fine della libertà sessuale degli anni Sessanta e Settanta. Negli anni successivi, l’«allarme Sars» e quello ancora più esemplare delle «lettere all’antrace» hanno accompagnato la minaccia della guerra infinita di Bush il piccolo. Negli Stati uniti, la sanità e il diritto alla salute hanno segnato anche la fine del bushismo e la riforma sanitaria di Barack Obama. Non è stato molto diverso in Italia nel 2009, quando il governo di centrodestra ha proposto che i medici diventassero i guardiani dell’«immunità» non solo dal punto di vista clinico ma anche e soprattutto dal punto di vista sociale e dovessero denunciare gli «illegali», col presupposto che così queste persone non sarebbero più andate a farsi curare: nella medicina c’è sia una soglia escludente secondo cui alcuni esseri umani non vanno curati. «C’è sempre questo gioco tra diritto formale e materia vivente, che di volta in volta si combina diversamente – spiega Esposito – Questa volta si combina una mancanza diritto formale per costruire una soglia all’interno della vita biologica, del genere umano»[3].
Land of the Dead comincia con una sentenza: «Se questa gente imparasse a pensare e a ragionare in qualche modo, l’esito sarebbe disastroso»: sembra quasi di assistere – da spettatori – alla fuoriuscita dallo stato di natura di cui parla Rousseau. Kaufman, il padrone della new town di Fiddler’s Green, si trova al vertice di una struttura fortemente gerarchica che promette «immunità». È esattamente come Hobbes aveva teorizzato: la guerra civile è lo stato originario della società, quindi gli individui attribuiscono ad un capo il diritto assoluto di governare e mantenere la sicurezza: «Poiché la retta ragione non esiste, la ragione di un uomo deve prenderne il posto»[4]. Ma l’ordine della paura soccombe al nascente (dis)ordine degli zombie, condotti da Big Daddy fino alla tana lussuosa del Leviatano Kaufman. Riley, protagonista del film, si pone in aperta contrapposizione con gli individualisti, cioè contro il cinico speculatore Kaufman e Cholo De Mora, un latinos che spera invano di scalare la gerarchia sociale: diverrà uno zombie dopo essere stato rifiutato dai quartieri alti. Dice Riley a proposito degli insorti: «Sono come noi, cercano un posto dove andare». Questa ribellione dei non-morti ci consente di notare una differenza sostanziale tra lo zombie coloniale e quello post-coloniale, che con un calembour potremmo definire come «la questione dei molti viventi».
La paura di venire a contatto con uno zombie è la paura di diventare come lui. Nella tradizione voodoo, come emerge nel maleficio raccontato in Il serpente e l’arcobaleno, omaggio di Wes Craven al saggio omonimo sul voodoo di Wade Davis[5], diventare uno zombie significa cadere nel terrore di abbandonare i molti per diventare uno, isolato dal contesto sociale e incapace di relazionarsi. Nei film di Romero, al contrario, essere contagiato significa diventare parte di una massa, entrare a contatto con i molti, perdere la propria individualità.
In Diary of the dead la contrapposizione tra individuo e società viene scavalcata dalla possibilità di raccontare in prima persona e mettersi a disposizione, con tutti i problemi e le contraddizioni che essa comporta. Romero mostra di comprendere che quando parliamo di internet non siamo di fronte al grande fratello telematico (visione individualista: la privacy prima di tutto) e neppure davanti all’utopia realizzata della democrazia orizzontale in rete (scenario da wishful thinkers, che in fondo nasconde una posizione comunitarista: tutto si sacrifica in nome della produzione in rete). Avventurarsi on the road per le strade infestate dagli zombie significa muoversi nello sterminato campo dei network con la leggerezza di chi non ha tesi precostituite, con un piccolo bagaglio a mano e una videocamera digitale e senza inutili zavorre ideologiche. Significa anche affrontare in termini nuovi, e nel campo della comunicazione, la relazione tra comunità e immunità. Come accade per le relazioni sociali e per quelle di potere, non bisogna pensare alla rete come uno spazio di cui impossessarsi, una «cosa» da controllare per i propri fini (seppur nobili), ma come un rapporto da mantenere e costruire continuamente, da alimentare a ogni costo col proprio «girato» quotidiano.
Se questo (non) è un uomo. Da Romero in poi, la gran parte dei film sugli zombie rispetta alcune delle regole generali dell’universo zombesco. La costituzione materiale vergata su celluloide da Romero prevede che ci si trovi in uno scenario post-apocalittico, che si assista al collasso delle strutture sociali, che si abbia paura degli altri umani sopravvissuti e che si debbano sperimentare nuovi modi di sopravvivere dentro il cataclisma. Romero ha aggiunto un tassello al nostro puzzle quando ha confessato di essere interessato a raccontare le reazioni degli uomini di fronte alle situazioni di disastro della civiltà. «Invece degli zombie, poteva essere un uragano: l’importante sono gli esseri umani e le loro reazioni», ha detto il regista in un recente incontro in Italia[6].
Il senso dell’affermazione di Romero è chiaro: di fronte a situazioni estreme possiamo rappresentare e indagare meglio l’essere umano. Come abbiamo visto a proposito di Hobbes e Rousseau, incamminarsi lungo il sentiero che porta alle zone più intime della natura umana, significa costruire una mappa che disegna anche necessariamente, seppure in maniera implicita e surrettizia, l’abbozzo di una teoria delle istituzioni politiche. Quando Carl Schmitt ha messo nero su bianco la famigerata prescrizione su cosa significhi davvero governare («Sovrano è chi proclama lo stato di emergenza»), stava per trarre le conseguenze di quanto aveva scritto nel suo «Il concetto del ‘politico’»: «Si potrebbe analizzare tutte le teorie dello Stato e le idee politiche in base alla loro antropologia, suddividendole a seconda che esse presuppongano, consapevolmente o inconsapevolmente, un uomo ‘cattivo per natura’ o ‘buono per natura’. La distinzione è del tutto sommaria e non va presa in senso specificatamente morale o etico. Decisiva è la concezione problematica o non problematica dell’uomo come presupposto di ogni ulteriore considerazione politica, cioè la risposta alla domanda se l’uomo sia un essere pericoloso o non pericoloso»[7]. Le conclusioni cui giunge il filosofo tedesco sono note: si tratta di praticare l’autonomia del politico dalle relazioni sociali e produttive per affermare il potere sovrano. In altre parole, bisogna fondare le relazioni di potere a partire dal codice binario amico-nemico, cioè dall’assunto che sta alla base d’ogni tipo di fondamentalismo, a cominciare dal nazismo di cui fu Schmitt fu uno dei teorici. La brutalità innata degli uomini teorizzata da Hobbes è rivendicata anche da Sigmund Freud[8] in una visione «romantica e illuminista allo stesso tempo»[9]. Per il padre della psicanalisi, la civilizzazione è la repressione degli istinti umani: dissotterrare l’inconscio significa poterlo governare, assumere pieni poteri tramite la consapevolezza della propria vita psichica. La malattia mentale è il conflitto tra i desideri della vita e le pulsioni di morte.
Se la civilizzazione è la repressione degli istinti umani, dobbiamo considerare lo zombie come la metafora brutale del «ritorno del represso», a partire dai due istinti primari, eros e thanatos. Il morso che contagia è il desiderio irrefrenabile di riprodursi e uccidere al tempo stesso. In Day of the Dead uno zombie è steso sul lettino del laboratorio del dottor Logan. Tutti gli organi vitali sono stati rimossi ma continua a dare segni di vita. Cerca di sganciarsi dalle cinture di sicurezza che lo tengono legato per mordere l’uomo in camice bianco. «Vedete, mi cerca – ci spiega allora Logan, come se fosse un docente di una cattedra di “zombologia” – Vuole mordere, ma non ha lo stomaco, non può avere nutrimento da ciò che ingerisce. Agisce sulla base di un istinto oscuro, profondo e primordiale».
Secondo Herbert Marcuse, la «civilizzazione» è la forma di disciplinamento che consente all’individuo di entrare nelle regole della comunità senza cedere ai desideri, trasformando l’eros in repressione e la creazione in lavoro salariato[10]. Il conflitto tra umani e zombie è l’esasperazione della lotta tra gli individui «civilizzati» e i loro istinti repressi. Nei film di Romero, assistiamo alla rappresentazione parossistica di un conflitto in cui questi ultimi sono soverchianti, perché è impossibile controllare completamente ciò che deborda la forma del controllo dell’eccedenza. In Night of the Living Dead il signor Cooper rappresenta la tradizionale figura patriarcale[11]. Sarebbe un personaggio perfetto, attorno al quale ritagliare la figura dell’eroe generoso che si spende per la sua famiglia e per gli altri ospiti della casa assediata. Ma in questo contesto il padre è tutt’altro che autorevole: è fragile, autoreferenziale, incapace di guadagnarsi il rispetto di chiunque. Cooper è costantemente messo all’angolo dagli altri personaggi che lottano per la sopravvivenza. Questa carenza di autorità è uno degli elementi che favorisce l’avanzata degli zombie. «I protagonisti erano vittime impotenti – spiega Romero – senza alcun intreccio secondario a riscattarli; gli zombie avevano un aspetto banale, erano deboli e soggiogabili individualmente, ma invincibili come massa; i funzionari governativi, i rappresentanti della stampa e le squadre dei cacciatori di zombie erano rappresentati come inetti e senza certezze, ridotti nel finale a battere la campagna facendo saltare a fucilate cervelli di zombie, senza alcuna pretesa di eroismo»[12].
Il fatto che Ben, l’antagonista umano di Cooper, sia alla fine ucciso da altri umani che lo scambiano per un morto vivente, allude alla possibilità che egli stesso appartenga per certi versi alla stessa categoria degli zombie. In Dawn of the Dead l’economia della civiltà è persino ridondante. Il centro commerciale diventa il luogo del piacere senza limiti, ma quando la forza distruttrice dei biker invade lo spazio del consumo, Stephen cede alla tentazione di difendere il suo spazio assecondando l’istinto. Infatti finisce per diventare uno zombie.
La presenza degli zombie nel succedersi dei film è «inversamente proporzionale alla capacità della civilizzazione di rinforzare il regime repressivo»[13]. Più gli umani violano le leggi secolari, più i morti viventi si fanno sotto capovolgendo quelle della natura. L’invasione zombie si manifesta negli anni in cui entra in crisi il patto fordista, che prevedeva lo scambio tra il diritto alla cittadinanza e all’inclusione sociale (la civilizzazione) in cambio della prestazione lavorativa tradizionale. Ne deriva un paesaggio sociale che necessita, per essere governato nella sua complessità e nell’incapacità di garantire la maggioranza degli abitanti in patto che li trasformi in cittadini, la dichiarazione di stati d’emergenza: «Ciò che rimane è una continua eccedenza della produttività sociale nei confronti dei dispositivi istituzionali deputati a regolarla e inscriverla in un progetto complessivo di governo della società»[14]. Per restare a Schmitt, dichiarare lo stato d’emergenza non è sufficiente a governare una forza-lavoro che seppure in diversa misura e intensità tendenzialmente valica il confine tra lavoro e non-lavoro, tra valorizzazione e formazione, tra azione strumentale e azione comunicativa, tra produzione e riproduzione sociale. Non si tratta più di disciplinare la carenza, ma di controllare l’eccedenza. Il controllo è tuttavia un processo che per quanto cerchi di presentarsi come totalizzante e pervasivo, sarà nei fatti sempre parziale, contraddittorio, assediato da orde di “non-vivi”, in quanto non riconosciuti dai parametri arbitrati dello stato sociale o dello stato nazionale, come nel caso dei lavoratori precari che non esistono per le casse pensionistiche o dei migranti che sono “clandestini”.
La nostra passeggiata con gli zombie arriva a un crocicchio decisivo, che ci consente di prendere sul serio la «pericolosità» dell’essere umano che descrivono – prima di Romero – sia Hobbes che Schmitt. Al tempo stesso, però, come abbiamo visto, i film di Romero chiudono ogni possibilità alla sintesi dialettica, alla ricostruzione di una qualche forma di sovranità e di comando statale che possa ristabilire l’ordine. Siamo al cuore della questione, all’interno della figura ambivalente del non-morto. «Problematico, ossia instabile e pericoloso, è l’animale la cui vita è caratterizzata dalla negazione», sostiene Paolo Virno. Una delle caratteristiche fondanti l’essere umano, insomma, è la capacità di negare qualche cosa: «Propriamente umano è l’animale capace di introdurre la paroletta ‘non’ in qualsiasi proposizione: quello cioè che sa sempre dire come non stanno le cose»[15]. Da ciò, dalla negazione, deriva una virtù che definiremmo creatrice: quello stesso animale è umano quando «utilizzando l’espressione ‘è possibile che’, dà prova di una carenza di orientamento nell’ambiente, e insieme della destrezza nel porvi rimedio»[16] e quando è in grado di porsi domande sulla ragione ultima delle cose che accadono, una concatenazione di perché che decide di interrompere con l’espressione «E così via…».
Ma dalla negazione, proprio dalla negazione – prosegue Virno – deriva il male, oltre che la virtù: a quel non, scrive ancora Virno, «si deve l’eventuale fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. L’evidenza percettiva ‘questo è un uomo’ perde la propria incontrovertibilità allorché è soggetta all’opera del connettivo logico ‘non’: Auschwitz, ma anche i centri di detenzione per gli immigrati, stanno lì a dimostrare la possibilità di decretare, riguardo a un proprio simile, ‘questo non è un uomo’» [17]. Lo zombie si muove dentro questa zona oscura, per questo ci fa pena e tenerezza, ci spaventa e ci appare familiare al tempo stesso: è la rappresentazione dell’animale umano cui è stata conferita la capacità di negare ma non quella di costruire modalità del possibile.
Questo iato tra negazione e assenza del possibile, il fatto che il non sia costretto a evitare di accompagnarsi con il si potrebbe, viene espresso con chiarezza nel rapporto tra logica del linguaggio e antropologia. Come vedremo più avanti, questa contraddizione trova una sua collocazione anche all’interno della sfera della produzione della soggettività e delle forme di vita.
[1] Roberto Esposito, «Immunitas. Protezione e negazione della vita», Einaudi 2002.
[2] Roberto Esposito, «La guerra, un’ossessione immunitaria» in Global magazine, n. 3, 2003, pag. 48.
[3] Intervista dell’autore a Roberto Esposito, in «Contro la vita», Carta n. 33 del 2009, pag. 13.
[4] Thomas Hobbes, «Elementi di legge naturale e politica», La Nuova Italia 1985, parte II, pag. 261.
[5] Wade Davis, «The serpent and the rainbow», Simon and Schuster 1985.
[6] L’incontro col regista a cui si riferimento è quello al festival milanese della Milanesiana del 12 luglio 2010.
[7] Carl Schmitt, «Il concetto del ‘politico’» in «Le categorie del ‘politico’», Il Mulino 1972, pag. 143.
[8] Sigmund Freud, «Al di là del principo del piacere», in «Opere», vol. IX, Bollati Boringhieri
[9] Luciano Mecacci, «Storia della psicologia del Novecento», Laterza 1992, pag. 109.
[10] Herbert Marcuse, «Eros e civiltà», Einaudi 1964.
[11] Bisogna qui ricordare che la famiglia Cooper del film era una vera famiglia poiché Karl Hardman, che interpreta Henry, e Marilyn Eastman, che interpreta sua moglie, erano davvero sposati. E l’attrice bambina Kyra Schon era veramente la loro figlia. Hardman era anche uno dei soci della Image Ten, prestato alla recitazione.
[12] Giulia D’Agnolo Vallan, cit., pag. 92.
[13] Simon Clark, «The Undead martyr» in Aa. Vv., «Zombies, vampires and philosophy», Open Court 2010, pag. 201.
[14] Alessandro De Giorgi, «Il governo dell’eccedenza», Ombre corte 2002, pag. 79.
[15] Paolo Virno, «E cosi via, all’infinito», Bollati Boringhieri 2010, pag. 9.
[16] Paolo Virno, cit., pag. 9.
[17] Paolo Virno, cit., pag.157.